Io sono nata nel 1978 alla periferia di Reggio Calabria. Quando avevo 9 anni, con la mia famiglia, ci siamo trasferiti in Liguria, e poi a 18 sono andata a vivere a Siena per fare l’università, e da 22 anni abito a Roma. Potrei dire che la mia è la storia di una bambina emigrata, che si è sentita diversa, che ha scoperto a 9 anni che cosa significava la parola “terrone”, che ha scoperto di appartenere a una categoria senza desiderarlo, come succede a molte persone. La mia è la storia di una bambina che a 12 anni ha deciso che voleva fare la scrittrice.

Come una bambina che recita a memoria la poesia che ha ripetuto centinaia di volte davanti alla mamma, Rosella Postorino diluisce la storia della sua vita così, come una premessa-promessa alla prima domanda che volevamo farle, quando la incontriamo sul terrazzo imbevuto di sole della suite di un hotel romano, mezz’ora prima arrivasse un diluvio da plot twist.

“Si esiste interi solo prima di nascere. Ma quello strappo è la vita”, scrivi nel tuo ultimo libro Mi limitavo ad amare te. Cos’è lo strappo?
Lo strappo è l’esperienza che tutti noi esseri umani facciamo venendo al mondo. Questa è la prima contraddizione dell’esistenza, noi per nascere dobbiamo essere separati dal corpo di nostra madre, dobbiamo essere sradicati, letteralmente. E questa è la prima delle ingiustizie, il primo dei traumi, la prima delle contraddizioni di cui facciamo esperienza nascendo. Emil Cioran chiamava questo stato “l’inconveniente di essere nati” ovvero non esiste possibilità di vita senza lo strappo, né di crescita, perché continueremo a strapparci vivendo, saremo strappati dal nido famigliare, dal cambio città. O come diceva Cesare Pavese “crescere significa andarsene” e sono felice di aver avuto tante città che sono state per un po’ la mia città. Il risultato è che ho la sensazione, come diceva Marguerite Duras, “di non essere nata da nessuna parte”, l’unico luogo che sento come casa è la letteratura, è la scrittura. Qualunque altro luogo perde d’importanza se non c’è un luogo immaginario nella mia testa che ha a che fare con la scrittura.

La scrittura l’ha portata a vincere il Premio Campiello nel 2018 con il bestseller internazionale Le Assaggiatrici, ispirato alla storia vera di Margot Wölk, l’assaggiatrice ufficiale di Hitler nella caserma di Krausendorf, e una candidatura al Premio Strega 2023 con l’ultimo romanzo, l’avventura di una ragazza e due ragazzi cui il destino ha tolto tutto, ma che senza nemmeno saperlo finiranno per salvarsi l’un l’altro la vita.

Che rapporto hai con le vittorie?
Quando ho vinto il premio Campiello sono andata in psicoterapia perché piangevo tutti i giorni. La terapeuta mi disse che mi sentivo in colpa perché avevo vinto, perché vincere mi faceva sentire come qualcuno che aveva fatto un passo troppo grande. E che avevo probabilmente aperto e dilatato quello strappo, quella separazione, quel senso di tradimento che io sento nei confronti della mia famiglia. Che è ovviamente fiera e orgogliosa del fatto che io abbia vinto, ma il Campiello appartiene a uno spazio semantico che a loro non appartiene. Lo capiscono, sì, ma con una grandissima distanza. Allora la mia terapeuta mi diceva “Lei piange tutti i giorni perché si sente in colpa di aver vinto una cosa così importante, di aver realizzato uno dei sogni della sua vita, perché teme che invece gli altri intorno a lei non li abbiano realizzati, ma forse neanche avevano dei sogni e neanche così grandi”… C’è una specie di “senso di colpa del sopravvissuto”, secondo me, nelle persone che fanno un salto molto grande dalla classe sociale originaria - quella dei genitori - a un’altra classe sociale, che nel mio caso è la borghesia intellettuale. Non saprei come chiamarla, la chiamo così perché io faccio un lavoro che è considerato “intellettuale”. Insomma, questo senso di colpa lo prova chi ce l’ha fatta, si è allontanato dal suo mondo passato e adesso appartiene a un mondo che crea una cesura, uno scarto comunicativo, con il passato stesso. C’è un lessico familiare che io re-imparo a parlare quando sono con i miei familiari, perché quello che parlo nella mia vita quotidiana non è il linguaggio dei miei genitori. Allora, la vittoria è per me la realizzazione dei sogni che hai desiderato da ragazzina, quelli proprio più radicali, più puri, pagando però contemporaneamente il prezzo di sentirsi, in qualche modo, colpevole. Lo so che è irrazionale, ragionevolmente non ho nessuna colpa.

Colpevole e anche diversa?
Mi sento diversa perché le persone che mi conoscono fin da piccola mi hanno fatto sentire diversa. A partire dalla mia famiglia, sono molto diversa da loro. Per esempio, amo moltissimo leggere ma vivevo in una casa senza libri, e la mia più grande risorsa erano le biblioteche scolastiche. Passo le mie giornate a pensare a storie inventate, sto completamente dentro le mie ossessioni e il mio immaginario ma anche in quello degli altri, e queste cose hanno per me valore di vita o di morte, sono importantissime. Pensa che in lockdown l’unica cosa che riusciva a consolarmi era il fatto che esistessero le storie degli altri, se non c’erano le nostre da vivere. E il fatto che io potessi immergermi nelle storie degli altri autori mi emozionava. Ma se racconto questa cosa a mio padre, per lui è molto strana, lui nella vita ha fatto il fruttivendolo, ha vissuto una vita molto faticosa e concreta. Quindi sì, continuo a sentirmi diversa rispetto alle persone che fanno parte del mio mondo d’origine ma non rispetto alle persone che fanno parte del mio mondo lavorativo, come gli scrittori. Siamo tutti un po’ strani e condividere questa stranezza, fra tic, ossessioni e turbe, ci fa sembrare meno strani, più al riparo dal giudizio altrui.

Non ti sei mai e poi mai sentita diversa rispetto agli altri scrittori?
Forse sì. Annie Ernaux nel suo capolavoro Gli Anni lo spiega bene quando usa il termine “transfuge” ovvero qualcuno che viene da un altro mondo, che si sente sempre un’imbucata in quello in cui vive.

Fra le prime pagine di Mi limitavo ad amare te c’è una frase tratta da L’Isola di Arturo di Elsa Morante, qual è l’isola di Rosella?
La mia isola sicuramente è la scrittura. Lo so che mi ripeto dicendo questo però è tutto il mondo dove io voglio stare. La mia isola sono i libri, sono le stanze piene di libri dove è possibile sedersi a un tavolo e scrivere, qualunque cosa accada, qualunque cosa ci sia intorno. Sono le parole, tutte le parole degli altri e tutte le parole che io stessa posso dire e non ho ancora detto. Noi siamo tutte le parole che ci hanno attraversato. Tutte, da quelle delle poesie di Catullo che abbiamo studiato al liceo a quelle che incontriamo su Facebook distrattamente ogni giorno.

Cosa ti terrorizza?
Io ho il terrore di moltissime cose che a molti non fanno paura o che non riescono a capire: i tunnel, gli ascensori, i bagni del treno. Ma non mi fa paura parlare in pubblico, una cosa che invece fa paura a molte persone. Non mi fa paura la velocità, quando sono con gli altri in macchina mi affido completamente. Non ho paura nemmeno degli estranei, potrei tranquillamente raccontare cose intime a perfetti sconosciuti incontrati un secondo prima sull’autobus, farmi tenere la porta del bagno da un passante sul treno, uscire con qualcuno semplicemente perché mi ha guardato in un certo modo mentre camminavo per strada. Mi è capitato.

Hai scritto alcuni libri per l’infanzia, come cambia il tuo modo di esprimerti quando scrivi per i bambini e quando per gli adulti?
Quando scrivo libri per i bambini io provo una grande gioia, un enorme senso di leggerezza e libertà. Quando scrivo romanzi per adulti devo studiare tantissimo, li scrivo in moltissimi anni, sono romanzi in cui io affondo letteralmente. Quando finisco di scriverli, ho proprio la sensazione di essere stata in apnea e di poter finalmente tornare a respirare. C’è un’immersione dentro un altro mondo, un’altra epoca. C’è anche il dolore, perché spesso sono romanzi che hanno a che fare con la guerra, con eventi collettivi che sono tragedie, quindi con il dolore di altri, che mi costringe a scavare dentro il mio di dolore. Quindi è difficile, anche emotivamente, scriverli. Mentre quando io scrivo libri per i bambini sono solo felice. Riesco a essere e tornare la bambina speranzosa che ero a 7, 8, 9, anni, quando scrivevo favole o filastrocche e mi inventavo tutti i giorni una storia. I libri per bambini li scrivo in due settimane e, dal momento che non ci sono paletti, perché non c’è un periodo storico preciso, non c’è neanche il problema del realismo, possono essere magici e possono accadere cose assurde. Per esempio, è possibile che persone che hanno delle caratteristiche che nel nostro mondo sarebbero considerate dei difetti e sarebbero stigmatizzate e derise, in quel mondo lì, dove io faccio approdare la mia protagonista, diventano delle qualità. Nel primo libro per bambini che ho scritto (Tutti giù per aria, ndr), un ragazzo che è affetto da flatulenza cronica è diventato famosissimo in tutto il mondo per il suo gas intestinale perché con quello fa delle acconciature famose in tutto il mondo. Lo vogliono tutti e tutte le donne sono innamorate di lui. È chiaro che questa cosa fa ridere tantissimo i bambini, perché i bambini ridono tantissimo con le puzzette, però è anche consolatorio pensare che sia possibile essere accettati così come siamo, con tutte le nostre debolezze e miserie e con tutta la nostra vulnerabilità. Per non dover continuamente chiedere scusa per quello che si è, e cioè semplicemente troppo umani.

E se domani il mondo smettesse di leggere libri?
Credo che potrebbe estinguersi tranquillamente, e io sicuramente non ne proverei dolore. No, sto scherzando. Penso che il mondo già da un po' abbia smesso di leggere libri. Sicuramente i libri non hanno l’importanza che avevano prima, così come gli scrittori non hanno l’importanza che avevano prima e gli intellettuali in generale non hanno così tanta importanza, ormai. C’è una sfiducia nei confronti degli esperti, come se fossero un’élite che in qualche modo può prendersi gioco di chi ha meno potere e di chi ha meno risorse. Come dire, se gli esperti non hanno impedito la crisi, la guerra, tutto ciò che di drammatico può accadere nelle nostre vite, allora a che cosa servono? Allora non servono a niente, allora non possiamo fidarci. C’è una sensazione molto grande di sfiducia che i social network rendono evidente anche nei confronti della medicina o della scienza. La pandemia lo ha reso lampante. Ci troviamo in un periodo di grande crisi nei confronti della conoscenza, quindi anche nei confronti dei libri e della letteratura. Nonostante questo penso che gli esseri umani avranno sempre bisogno di storie, perché gli esseri umani sono fatti di storie. Il mondo in cui noi tolleriamo l’esistenza è legato alla narrazione. Perché l’esistenza stessa è qualcosa di incomprensibile. C’è un inizio che non abbiamo scelto, c’è una fine che di solito non scegliamo e in mezzo c’è il caos più totale. La narrazione ci consente di pensare che invece esiste la possibilità di una consequenzialità, di un rapporto di causa-effetto tra le cose, di un ordine che è l’ordine narrativo che dà significato all’esistenza. Se noi potessimo guardare la nostra vita dalla fine, forse potremmo provare a darle un senso. È chiaro che, mentre siamo nella nostra vita, il senso è davvero incomprensibile. Noi abbiamo bisogno di narrazione, abbiamo bisogno di storie, abbiamo bisogno di comprendere i sentimenti anche estremi degli altri e fare i conti con quel magma nebuloso che spesso sono le nostre emozioni, i nostri sentimenti, le paure che non riusciamo a decifrare. E abbiamo bisogno di quella forma di silenzio, di preghiera, mi viene da dire, che è la lettura. Che è qualcosa che si fa generalmente da soli, e che è una delle pochissime cose che ci sono rimaste in questo tempo che possiamo fare da soli, senza frenesia, con calma, come se fosse veramente una forma di presa di contatto con noi stessi, con la parte più remota e nascosta di noi stessi. Quindi forse si venderanno sempre meno libri, però ho ancora fiducia nel fatto che continueremo ad avere bisogno di leggere le storie, e non soltanto vederle. Perché mi si può dire “abbiamo bisogno delle storie, guardiamo le serie tv!”. No, abbiamo bisogno di quella specie di meditazione e di preghiera che è la lettura, che in fondo è un corpo a corpo con noi stessi.

Se ci immagini questa sera da soli, a casa nostra, a leggere Mi limitavo ad amare te, cosa vorresti che ci arrivasse?
Vorrei sentiste l’affetto che provo io per i personaggi che popolano le pagine. E che ho avuto la sensazione di conoscere fin da quando erano piccoli, di vederli crescere nonostante tutto. Nonostante i loro traumi, nonostante il loro danno originario, nonostante la guerra, l’abbandono, lo strappo, la separazione. Nonostante fossero diversi, stranieri, emarginati, loro sono cresciuti e sono cresciuti perché comunque l’istinto di sopravvivenza degli esseri umani è molto forte, e probabilmente anche perché dentro i ragazzini c’è una specie di pulsione vitalistica che è contraddittoria, che spesso può essere anche autodistruttiva, o anche distruttiva nei confronti degli altri o del mondo, che però è come una specie di energia che sfrigola nei muscoli e che tenta di trovare una strada per incanalarsi. E allora mi piacerebbe che i lettori sentissero tutto questo. Dall’altro lato vorrei che sentissero tutte le domande, diciamo così, teologiche e filosofiche, che sono sotterranee a questo romanzo e che sono domande che non possono trovare risposta negli esseri umani. Sono le domande che la letteratura in maniera ostinata continua e questo è qualcosa di grandioso. Perché di solito le domande che noi ci facciamo da bambini in cui continuiamo a chiedere ossessivamente perché?, poi a un certo punto da adulti siccome non c’è risposta ci rassegniamo a non farcele. La letteratura no, la letteratura continua a farsele. Può sembrare assurdo perché le risposte non ci sono, ma è proprio in questo gesto di continuare a interrogarsi che io trovo l’unica forma di senso della mia esistenza, partendo dal presupposto che in sé l’esistenza non ha un senso all’origine, almeno per chi non è credente come me. Allora continuare a pormi delle domande sulla vita, sulla morte, sulla convivenza collettiva, sulle relazioni tra gli esseri umani, sui sentimenti, sull’amore, sul rapporto tra genitori e figli, sulle cose che sono incandescenti nella nostra vita e che la costituiscono, per me è l’unico modo in cui trovo un senso al mio stare qui nel mondo.