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Apuleio

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Apuleio

Lucio Apuleio (123 – 180 circa), scrittore e filosofo romano.

Citazioni di Apuleio

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  • [Platone] Quanto ai tre viaggi in Sicilia, certo i maligni lo criticano sostenendo opinioni discordanti. Ma la prima volta egli partì per ragioni scientifiche, cioè per conoscere la natura dell'Etna e gli incendi di questa montagna incavata.[1]
  • Talete di Mileto fu senza dubbio il più importante tra quei sette uomini famosi per la loro sapienza – e infatti tra i Greci fu il primo scopritore della geometria, l'osservatore sicurissimo della natura, lo studioso dottissimo delle stelle: con poche linee scoprì cose grandissime, la durata delle stagioni, il soffiare dei venti, il cammino delle stelle, il prodigioso risuonare del tuono, il corso obliquo delle costellazioni, l'annuale ritorno del sole; fu lui a scoprire il crescere della luna che nasce, il diminuire di quella che cala e gli ostacoli di quella che s'inabissa.[2]

Le metamorfosi o L'asino d'oro

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Originale

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At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido susurro permulceam – modo si papyrum Aegyptiam argutia Nilotici calami inscriptam non spreveris inspicere –, figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et in se rursum mutuo nexu refectas, ut mireris. Exordior. «Quis ille?» Paucis accipe. Hymettos Attica et Isthmos Ephyraea et Taenaros Spartiaca, glebae felices aeternum libris felicioribus conditae, mea vetus prosapia est; ibi linguam Atthidem primis pueritiae stipendiis merui. Mox in urbe Latia advena studiorum Quiritium indigenam sermonem aerumnabili labore nullo magistro praeeunte aggressus excolui. En ecce praefamur veniam, siquid exotici ac forensis sermonis rudis locutor offendero. Iam haec equidem ipsa vocis immutatio desultoriae scientiae stilo quem accessimus respondet. Fabulam Graecanicam incipimus. Lector intende: laetaberis.

[Apuleio, Le metamorfosi o L'asino d'oro, a cura di Lara Nicolini, Rizzoli, Milano, 2010.]

Claudio Annaratone

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Ecco! In stile milesio voglio per te, o lettore, intrecciar varie favole, e col piacevole mormorio del mio narrare carezzar le tue orecchie. Basterà solo che tu non rifiuti di dare uno sguardo a un papiro egiziano che è stato scritto con la finezza propria a una cannuccia del Nilo. Avrai da stupirti, ché si tratterà delle persone e delle sorti d'uomini cangiati in altre figure, i quali con alterna vicenda ritorneranno nuovamente nella forma primitiva.
Inizio.
— Chi era costui? — ti domanderai. Ti rispondo in breve. L'attica Imetto, l'epirota Istmo, la spartana Tenaro sono terre felici, celebrate in eterno in opere ancor più felici: di qui derivò in antico la mia prosapia; qui, nei primi esercizi della fanciullezza, appresi la lingua attica.
Poi, nella città del Lazio, io, ch'ero straniero all'ambiente della cultura romana, intrapresi con durissima fatica lo studio dell'idioma locale, e in esso mi approfondii senza che alcun maestro mi guardasse. Chiedo perdono, dunque, se, parlatore inesperto, incorrerò in qualche termine esotico o popolare.

[Apuleio, Le Metamorfosi o L'Asino d'oro, traduzione e note di Claudio Annaratone, Rizzoli, Milano, 20103. ISBN 978-88-17-86160-1.]

Ferdinando Carlesi

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Ecco, qui io riunirò per te in un intreccio unico diverse novelle sul genere di quelle milesie, e se mi porgerai benevolo orecchio, te l'accarezzerò col piacevole mormorio del mio racconto purché tu ti degni di dare un'occhiata a questo papiro egiziano vergato con l'arguzia d'una penna Nilotica.
Potrai allora ammirare creature e sorti umane cangiate di forma e poi di nuovo con mutua vicenda rimesse nel loro stato. Dunque comincio. Tu dirai: «Ma chi è costui?» Stammi a sentire in due parole. La mia famiglia è antica e proviene dalle parti dell'Imetto nell'Attica, dell'istmo di Corinto e del promontorio di Tenaro nella Laconia. Son posti fortunati a cui libri ancor più fortunati dettero fama eterna. Là feci le mie prime armi nella lingua greca; poi, emigrato a Roma per seguire gli studi romani, dovetti abbordare la lingua del paese ma la studiai da me senza maestro e ci durai molta fatica. Quindi il latino lo parlo rozzamente, e perciò ti prego di perdonarmi se incapperò in qualche locuzione forense. Del resto questa varietà di forme linguistiche risponde bene al carattere delle trasformazioni magiche che abbiamo preso a narrare. Comincio dunque un racconto di tipo greco. Attento, lettore! Ti divertirai.

[Apuleio, Gli XI libri delle Metamorfosi, traduzione di Ferdinando Carlesi, testo critico riveduto da Nicola Terzaghi, Sansoni, Firenze, 1954.]

Marina Cavalli

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E ora intreccerò per te in un solo racconto alcune novelle del genere milesio, e se mi presterai il tuo benevolo orecchio te lo accarezzerò col divertente mormorio della mia storia, perché tu non disdegni di dare un'occhiata a questo papiro egizio, vergato con l'arguzia di una penna nilotica. Ammirerai creature e destini umani tramutati in forme diverse, e poi di nuovo riportati alla loro natura, con alterna vicenda.
Cominciamo. Ma tu dirai: "Chi è costui?".
Te lo dirò in due parole. La mia famiglia è antica, e viene dalle terre felici, e in ancor più felici libri immortalate, dell'Imetto attico, dell'istmo di Corinto e del promontorio spartano Tenaro. Lì, nella mia fanciullezza, imparai i primi rudimenti della lingua greca. Poi, venuto a Roma, mi misi a imparare la lingua del posto, ma la studiai da solo senza un maestro, e ci penai molto. E dunque prima di tutto chiedo venia se nel mio rozzo latino incapperò in qualche espressione strana o popolare: e del resto anche questa varietà di forme linguistiche risponde bene allo stile dell'arte trasformistica che ho voluto scegliere. Ecco dunque un racconto di tipo greco. Attento, lettore: ti divertirai.

[Apuleio, Metamorfosi (L'asino d'oro), traduzione di Marina Cavalli, Mondadori.]

Felice Martini

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Eccomi qua a intesserti svariate novelle sullo stile di codesti racconti Milesii, se pure non isdegnerai di guardar questa carta argutamente segnata da ni­lotica penna. Incomincio col farti stupire innanzi a metamorfosi di condizioni umane e di figure, con vi­cendevole concatenamento ritornate nell'aspetto pri­miero. — Ma chi è costui?... In due parole. — Dall'At­tico Imetto, dall'Istmo di Corinto, dallo Spartano pro­montorio di Tenaro, zolle felici in più felici libri eternate, la nobile mia prosapia discende. Quivi, negli anni primi di mia puerizia, appresi l'Attica lingua: poscia, in città latina straniero, senza la scorta d'al­cun maestro, coltivai faticosamente il natio linguaggio dei Quiriti. Però chiedo perdono, anzi tutto, se, rozzo parlatore, in qualche locuzione urterò, di sapore eso­tico e forestiero. È certo che, questa medesima muta­zion di linguaggio, ai salti di quella magica scienza, cui ci siam dati, egregiamente risponde. Incominciamo una grecheggiante narrazione. Lettore, at­tento: ti divertirai.

[Apuleio, L'asino d'oro, traduzione di Felice Martini, Formìggini, 1927.]

Nino Marziano

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Eccomi a raccontarti, o lettore, storie d'ogni genere, sul tipo di quelle milesie e a stuzzicarti le orecchie con ammiccanti parole, solo che tu vorrai posare lo sguardo su queste pagine scritte con un'arguzia tutta alessandrina.
E avrai di che sbalordire sentendomi dire di uomini che han preso altre fogge e mutato l'essere loro e poi son ritornati di nuovo come erano prima.
Dunque, comincio.
Certo che tu ti chiederai io chi sia; ebbene te lo dirò in due parole: le regioni dell'Imetto, nell'Attica, l'Istmo di Corinto e il promontorio del Tenaro nei pressi di Sparta sono terre fortunate celebrate in opere più fortunate ancora. Di lì, anticamente, discese la mia famiglia; lì, da fanciullo, appresi i primi rudimenti della lingua attica, poi, emigrato nella città del Lazio, io che ero del tutto digiuno della parlata locale, dovetti impararla senza l'aiuto di alcun maestro, con incredibile fatica.
Perciò devi scusarmi se da rozzo parlatore qual sono, mi sfuggirà qualche barbarismo o qualche espressione triviale.
Del resto questa varietà del mio linguaggio ben si adatta alle storie bizzarre che ho deciso di raccontarti.
Incomincio con una storiella alla greca. Stammi a sentire, lettore, ti divertirai.

[Lucio Apuleio, L'asino d'oro, traduzione di Nino Marziano, Garzanti, Milano, 1974.]

Lara Nicolini

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E adesso io intreccerò per te favole diverse, in questo stile milesio, e accarezzerò le tue orecchie benevole con un dolce sussurrare – sempre che a te non dispiaccia dare un'occhiatina a un papiro egiziano scritto con la finezza propria di una cannuccia del Nilo – e allora resterai a bocca aperta, davanti a figure e sorti di uomini che si mutano in immagini diverse e che poi ritornano di nuovo nella forma precedente, scambiandosi tra loro. Cominciamo... «E questo chi è?» Te lo dico in due parole: l'Imetto in Attica, l'Istmo di Corinto, il Tenaro a Sparta, queste terre fortunate, celebrate in eterno in libri ancor più fortunati, ecco la mia antica stirpe; e lì, ragazzo alle prime armi, imparai la lingua greca. Più tardi, a Roma, pur se estraneo alla cultura dei Quiriti, mi diedi a coltivare la lingua locale, con enormi sforzi e senza la guida di nessun maestro. E perciò chiedo scusa in anticipo se, da rozzo parlatore quale sono, incapperò in qualche parola esotica e straniera; d'altra parte, anche questi cambiamenti di lingua ben si accordano con lo stile a cui sono dedito, un vero e proprio gioco di volteggio. Diamo inizio a una favola di origine greca. Sta' ben attento, lettore: ti divertirai.

[Apuleio, Le metamorfosi o L'asino d'oro, introduzione, traduzione e note di Lara Nicolini, Rizzoli, Milano, 2005.]

Citazioni

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  • In quel momento mi resi conto che alcuni stati d'animo, per loro natura, possono produrre effetti contrastanti: e come certe volte nascono lacrime dalla gioia, allo stesso modo in quella situazione di terrore io non riuscii a trattenere il riso [...]. (Aristomene: I, 12; 2010)
Tunc ego sensi naturalitus quosdam affectus in contrarium provenire. Nam ut lacrimae saepicule de gaudio prodeunt, ita et in illo nimio pavore risum nequivi continere [...].
  • Io veramente credo che nulla sia impossibile, ma che, a seconda di quanto ha stabilito il destino, qualsiasi cosa possa accadere ai mortali [...]. (Lucio: I, 20; 2010)
«Ego vero» inquam «nihil impossibile arbitror, sed utcumque fata decreverint ita cuncta mortalibus provenire [...]
  • "Ma il giorno è vicino ormai" gli rispondo "e poi che cosa potrebbero portar via i briganti a un viandante povero e senza un soldo? Forse non lo sai, cretino, ma un uomo nudo non riuscirebbero a spogliarlo nemmeno dieci lottatori di palestra!" (I, 15; 2005, p. 125)
  • [Apprendendo di essere stato accusato del furto a Milone] Mentre quello raccontava queste cose, io facevo il paragone tra la mia antica fortuna e la presente disgrazia, tra il Lucio felice di allora e l'asino infelice di adesso, e gemevo dal profondo dell'anima; e mi veniva in mente che non per nulla gli antichi saggi del passato avevano immaginato e rivelato che la Fortuna è cieca e addirittura senza occhi, perché prodiga sempre i suoi favori ai malvagi e a chi non lo merita, e tra gli uomini non sceglie mai nessuno con criterio, ma anzi si accompagna per lo più a persone tali che, se ci vedesse, dovrebbe assolutamente evitare e, ciò che è ancor peggio, conferisce a noi uomini una reputazione molto diversa, anzi proprio alla rovescia, così che il malvagio si gloria della nomea di uomo dabbene e l'uomo più innocente del mondo viene colpito dalla fama di criminale. (VII, 2; 2005, p. 433)
  • [Fraintendendo le azioni di Emo-Tlepolemo e Carite] Ora, questa qui, da quando aveva visto quel giovane e aveva sentito parlare di bordello e di ruffiani, aveva preso a esaltarsi, tra le più allegre risate, al punto che in me giustamente nasceva il disprezzo per tutto il genere femminile a vedere una ragazza che, dopo aver finto di amare il suo giovane fidanzato e di desiderare nozze oneste, ora tutt'a un tratto era felice e contenta al sentir nominare uno sporco, schifoso bordello. E fu così che in quel momento l'intero genere femminile e la sua moralità si trovarono a dipendere dal giudizio di un asino! (VII, 10; 2005, p. 449)
  • Dopo avermi piegato con queste disgrazie, la crudele Fortuna mi consegnò a dei nuovi tormenti, evidentemente perché potessi, come si suol dire, fregiarmi della gloria più meritata, quella per le grandi imprese compiute in patria e all'estero. [...] Ma anche questa speranza troppo ottimista finì per tramutarsi in un disastro totale. (VII, 16; 2005, p. 461)
  • Si sa che la fiamma del crudele Amore, quando è ancora tenue, col suo primo calore procura piacere, ma poi, alimentata dalla consuetudine, divampa in un incendio incontrollabile e divora completamente gli uomini. (VIII, 2; 2005, p. 489)
  • Quello che si crede difficile a farsi, via via che l'amore cresce di giorno in giorno, sembra facile da ottenere. (VIII, 3; 2010)
  • [A proposito di uno schiavo corrotto] Alla fine però l'oro ebbe la meglio sulla paura della morte. (Vecchia mezzana innominata: IX, 19; 2010)
Ad postremum tamen formidinem mortis vicit aurum.
  • [...] se una cosa non la viene a sapere nessuno, è come se non avvenisse. [Dicendo così una matrigna tenta di convincere il figliastro a giacere con lei] (X, 3; 2010)
[...] quod nemo novit, paene non fit.
  • [A proposito di Paride e della mela d'oro data a Venere in cambio di Elena] E allora che vi meravigliate a fare, gentaglia ignorante, o meglio bestiacce da tribunale, anzi, meglio ancora, avvoltoi con la toga, se al giorno d'oggi tutti quanti i giudici vendono per denaro le loro sentenze, quando fin dall'origine dei tempi una causa sorta tra gli dei e gli uomini fu falsata dal favoritismo, e la prima sentenza ufficiale la vendette a prezzo di un piacere sessuale – e col risultato di mandare in rovina tutta la sua stirpe – un campagnolo, un pecoraio, eletto giudice dalla saggezza del grande Giove? (X, 33; 2005, p. 691)
  • Eccomi, Lucio, commossa dalle tue preghiere vengo a te, io, la madre della natura, la signora di tutti gli elementi, l'origine prima dei tempi, la più grande tra gli dei, la regina dei morti, la signora dei celesti, l'immagine unificante di tutti gli dei e le dee; io che regolo secondo la mia volontà le luminose altezze dei cieli, le salubri brezze dei mari, i disperati silenzi degli inferi; e la divinità unica che io sono, il mondo intero la venera sotto diverse forme, con differenti riti e con i nomi più vari. Da un parte i Frigi, i più antichi abitatori della terra, mi chiamano la Pessinunzia Madre degli dei, dall'altra, gli Ateniesi autoctoni Minerva Cecropia, lì i Ciprioti bagnati dai flutti Venere di Pafo, e i Cretesi armati di frecce Diana Dictinna, i Siculi trilingui Proserpina Stigia, gli antichi abitatori di Eleusi Cerere Attea; alcuni mi chiamano Giunone, altri Bellona, gli uni Ecate, gli altri Ramnusia, ma coloro che sono illuminati dai primi raggi del sole che nasce e da quelli morenti del sole che tramonta, le due razze degli Etiopi, e con loro gli Egizi insigni per la loro antica sapienza, onorandomi col culto che più mi si addice, mi chiamano col mio vero nome, Iside regina. (XI, 5; 2010)

Fu così che quell'apparizione divina, nella sua persuasiva maestosità, mi annunziò cosa si dovesse fare. E io quindi, senza trascurare la faccenda e senza ritardarla rimandandola pigramente al giorno dopo, ma raccontata subito al mio sacerdote la visione che avevo avuto, all'istante mi sottometto al giogo della dieta senza carne animale e dopo aver prolungato di molto, con un'astinenza volontaria, i dieci giorni prescritti da una legge senza tempo, mi procuro tutto l'occorrente per l'iniziazione usando grande generosità, basandomi più sul mio zelo religioso che sui limiti delle mie sostanze. E in ogni caso, perdio, non ebbi mai a pentirmi di nessuna fatica, né di nessuna spesa, anzi, grazie alla generosità della divina provvidenza, me la passavo niente male coi guadagni della professione forense. Infine, dopo solo qualche giorno, il dio che tra tutti i grandi dei è il più potente, tra i più potenti il supremo, e tra i supremi il massimo e tra i massimi il sovrano, Osiride, mi apparve in sogno, e non mutato nelle spoglie di un altro essere, ma lui in persona, e si degnò anche di rivolgermi la sua parola veneranda: dovevo continuare – mi diceva – senza esitazione a svolgere la mia gloriosa professione di avvocato nel foro, e non dovevo temere le dicerie seminate dai maligni, che in quell'ambiente erano suscitate dai miei faticosi studi e dalla mia erudizione. E perché non attendessi al servizio del suo culto confuso in mezzo alla folla dei suoi fedeli, mi ammise al collegio dei suoi Pastofori, anzi tra gli stessi decurioni quinquennali. E così ancora una volta, rasatami completamente la testa, senza coprirmi o nascondere la calvizie, ma esponendola apertamente, eccomi lì, mentre tutti gli obblighi di quel collegio antichissimo, fondato ai tempi di Silla; li affrontavo pieno di gioia.

[Traduzione di Lara Nicolini]

Citazioni su Le metamorfosi o L'asino d'oro

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  • Con la favola di Amore e Psiche, Apuleio crea una forma d'arte che si impose per sempre alla fantasia occidentale: l'arte dei misteri. Quest'arte è legata dal segreto: deve tacere le cose divine mentre ne parla; e quindi rivelarle nascondendole. Così Apuleio costruisce le Metamorfosi su un'immensa omissione: la presenza di Iside nei primi dieci libri, non meno intensa che nella trionfale apparizione dell'undicesimo. Poi gioca, usa tocchi fatui e leggeri, scherzi e arguzie, allusioni enigmatiche, note basse ed oscene; e la forma più priva di valore religioso che sia mai esistita – la mitologia ellenistica, con le Veneri, le Grazie, gli amorini, la ricerca del piccolo e del parodistico. Non potremmo, in apparenza, essere più lontani dal sacro: eppure dietro la superficie, la «favola» è il più grande ed audace testo mistico della letteratura europea. (Pietro Citati)
  • L'asino d'oro è in realtà una sorprendente torta «millesapori», che talvolta finisce per non averne più nessuno al palato del lettore. (Luca Canali)
  • Mi dà le vertigini, mi abbaglia: la natura in se stessa, il paesaggio, l'aspetto puramente pittoresco delle cose vi sono trattati alla maniera moderna e con un soffio antico e cristiano ad un tempo che li pervade. Vi si sente l'incenso e l'orina: la bestialità si congiunge al misticismo. (Gustave Flaubert)
  • Mi stavo rileggendo in quei giorni quel libro di Lucio Apuleio che dal titolo originale si chiama Le trasformazioni, e comunemente è chiamato L'Asino d'oro. Era la quinta o sesta volta che me lo rileggevo. E ogni volta me lo leggevo meglio. Di tanto in tanto «agganciavo» la mia mente a una parola o particolarmente significativa o particolarmente evocatrice, e quindi spiccavo il volo nelle divagazioni, nei ragionamenti, nelle fantasie. La buona qualità di un libro, noi che scriviamo la misuriamo dal suo potere nutritivo. (Alberto Savinio)

Lara Nicolini

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  • E il meccanismo della sorpresa, inteso come improvviso manifestarsi di una realtà alternativa a quella presupposta, che in ogni tipo di narrativa è una semplice opzione nell'ambito della tecnica del racconto, nel romanzo apuleiano si rivela perciò – sia a livello della trama principale che dei racconti secondari – una vera e propria strategia compositiva e uno dei fili conduttori della storia, e di conseguenza un modello di percezione del mondo. Nel mondo delle Metamorfosi niente può considerarsi sicuro – e l'esempio perfetto di questo mondo delle apparenze, in cui ogni cosa appare precaria e ingannevole, è lo stesso protagonista imprigionato nella forma dell'asino e naturalmente ignorato per tutto il tempo dagli altri uomini. [...] non ci sono certezze, tutto dev'essere verificato, toccato con mano. L'unica possibilità di sapere è l'esperienza, e la disposizione d'animo più giusta sembra appunto questa credulitas, quest'ansia di mirum che fin dall'inizio caratterizza il protagonista; non si tratta di ingenuità, ma di apertura mentale, un atteggiamento più volte lodato da Lucio stesso: mentre lo scetticismo dell'anonimo compagno di Aristomene – che è presumibilmente quello del lettore – si preclude molte possibilità, l'atteggiamento di chi «vuol sapere tutto, o almeno il più possibile» sembra il più consigliabile. (Introduzione; 2005, p. 31)
  • [Commentando il ruolo della storia di Amore e Psiche nel romanzo] Ora, a me sembra che ad attivare l'analogia e a farsi carico della funzione orientatrice del racconto sia semplicemente l'unico tratto completamente sovrapponibile delle due vicende e cioè appunto il tema della curiositas, un tema, più che platonico, fondamentalmente plutarcheo. (Introduzione; 2005, p. 38)
  • E seppure non abbracciata effettivamente nella vita, quella religione che aveva tanti punti di contatto col platonismo, che non pretendeva faticosi percorsi di conversione, che pareva garantire una conciliazione tra il pensiero razionale e le esigenze spirituali, poté sembrare ad Apuleio una degna conclusione per quella storia che gli era piaciuta e che aveva voluto riscrivere e dotare di un senso più pieno; una conclusione almeno simbolica, rappresentativa delle sue più profonde aspirazioni: la conoscenza a ogni costo – un fine a cui aveva sacrificato un enorme patrimonio – e, forse, il tentativo di superamento del disordine angoscioso del mondo nell'ordine e nella quiete di una religione o, come più probabilmente avvenne, di una filosofia. (Introduzione; 2005, p. 56)

Sulla magia e in sua difesa

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Io ero ben certo e tenevo per vero. Claudio Massimo e voi che fate parte del consiglio, che un vecchio rinomato per la sua sconsideratezza come Sicinio Emiliano avrebbe riempito di soli insulti, in mancanza di fatti criminosi, l'accusa che egli ti ha avanzato contro di me prima di meditarsela per suo conto. Ora si può ben incolpare un innocente qualsiasi ma non si può condannare se non chi è colpevole. Io confido soprattutto in questo e mi rallegro per gli dèi del cielo che mi sian toccati la possibilità e i mezzi di difender la filosofia presso la gente inesperta e di discolparmi avendo te come giudice.

Citazioni

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  • Il pudore [...] è come un vestito: quanto più è consumato tanto minor cura se ne ha. (p. 190)
  • [A Sicinio Emiliano, suo accusatore nel processo sulla magia] Eppure anche altri hanno scritto versi simili [Lascivi], benché voi li ignoriate: fra i Greci uno di Teo e uno di Lacedemone e uno di Ceo e altri numerosissimi, fra cui anche una donna di Lesbo, che ne ha scritti sì lascivi ma con tal grazia che la dolcezza della sua poesia ci fa accettare l'arditezza del suo linguaggio; fra i nostri poi Edituo e Porcio e Catullo, anche loro assieme con numerosissimi altri. «Ma questi non erano filosofi». Negherai allora che anche Solone fosse una persona seria e un filosofo? eppure è suo quel verso lascivissimo.
    col desiderio delle cosce e della dolce bocca. (p. 194)
  • Mio miele, ti dono corone di fiori e questo canto; il canto è per te, le corone per il tuo genio, o Crizia... (p. 195)
  • Il saggio più che amare ricorda. (p. 197)
  • La povertà è sempre stata di casa con la filosofia: è onesta, moderata, padrona di poco, desiderosa di approvazione, è un bene sicuro rispetto alle ricchezze; non si preoccupa mai delle apparenze, è di modi semplici, benevola quando dà consigli, non istiga mai alcuno alla superbia, non riduce mai alcuno al male per la sua sfrenatezza, mai rende bestiali con la sua tirrannia, non vuole, né può, tutti i piaceri del ventre e del sesso. (p. 201-202)
  • La povertà [...] fu presso i Greci giusta in Aristide, buona in Omero, valorosa in Epaminonda. Ancora oggi la povertà ha posto fin dalle origini il fondamento dell'impero del popolo romano, e per lui ancor oggi essa offre sacrifici agli dèi immortali con un mestolo e una scodella di terracotta. (p. 202)
  • In tutti gli strumenti con cui si adempiono i compiti della vita tutto ciò che supera un'idonea moderazione diventa un di più che pesa invece che servire. (p. 202)
  • Le ricchezze spropositate sono come un timone smisurato fuor del normale, che fa affondare meglio che servir a dirigere, perché sono inutilmente abbondanti e dannosamente eccessive. (p. 202)
  • Nessuno di noi è povero se non desidera il superfluo e possiede il necessario, che per natura è assai poco. (p. 203)
  • Ha di più chi meno cose rimpiange, e chi ne vuole pochissime avrà tutto quel che vuole. (p. 203)
  • Per vivere, proprio come per nuotare, va meglio chi è più privo di pesi, ché anche nella tempesta della vita umana le cose leggiere servono a sostenere, quelle pesanti a far affondare. (p. 204)
  • Chi di noi ha meno bisogni è più simile a un dio. (p. 204)
  • [...] tu, Emiliano, e gli uomini della tua razza, gente incolta e selvaggia, valete soltanto quello che possedete: così come l'albero sterile e infelice, che non produce alcun frutto, vale soltanto il legno del suo tronco.[3] [insulto] (XXIII)
  • Non bisogna [...] star a guardare dove uno è nato, ma come egli è costumato, né si deve considerare in quale frontiera ma in quale maniera uno ha iniziato la sua vita. (p. 205)
  • La demenza non può riconoscere sé stessa, nello stesso modo con cui la cecità non può vedersi.
Insania scire se non potest, non magis quam caecitas se uidere.[4]

Citazioni sull'opera

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  • Era (Apuleio) realmente un mago? Miracoli egli non ne operava, se non nel mondo fantastico del suo romanzo [...], ma in quanto neoplatonico credeva a un mondo intermedio fra gli dei e gli uomini, mondo di demoni, che molto influivano sulla vita umana. Non superstizioso né bigotto, Apuleio apparisce in questa sua Apologia sostanzialmente come un mistico, fervido prodotto del suolo africano. (Francesco Della Corte)

Incipit de Il mondo

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Il mondo nel suo insieme si compone del cielo, della terra, e delle cose che per la loro natura appartengono a entrambi. O, in questi altri termini: il mondo è un cosmo, cioè un insieme ordinato e ornato per virtù divina e costodito dagli dèi. La terra, genitrice e nutrice di tutti i viventi, ne occupa fermamente il centro.[5]

Citazioni su Apuleio

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  • Il carattere precipuo del suo stile è il cumulo: ciò ch'era sparso o raro negli altri scrittori in lui divenne costume; egli seppe fare particolarmente suo ciò che apparteneva un po' a tutti, e coi materiali onde aveano fatto moderato o disordinato uso gli scrittori precedenti si costruì un suo grandioso, se anche barocco, edificio stilistico. (Concetto Marchesi)
  • Il più grande prosatore latino di ogni tempo. (Pietro Citati)
  • Prevalendo nel suo spirito l'elemento fantastico e un vivissimo sentimento religioso e mistico, ne veniva come uno squilibrio nelle sue facoltà mentali, invase e ossesse dalla credula passione e ricerca del soprannaturale e del meraviglioso (nell'Apologia si difende dall'accusa di magia; ma a questa mostra però di crederci, e si guarda bene dal parlarne male: c'è piuttosto un tentativo indiretto di metterla in buona luce e in onore). Quindi la contraddizione dello scienziato superstizioso e bigotto e anche quella del filosofo moralista e pio, e pur dai costumi non troppo severi. (Carlo Giussani)

Note

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  1. Da Platone e la sua dottrina, 1, IV.
  2. Da Florida, 18.
  3. Da Della magia, traduzione di Concetto Marchesi, Sellerio, Palermo, 1992.
  4. Da Apologia, 80.
  5. Citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.

Bibliografia

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  • Apuleio, Le metamorfosi o L'asino d'oro, introduzione, traduzione e note di Lara Nicolini, Rizzoli, Milano, 2005, 2010.
  • Apuleio, Metamorfosi (L'asino d'oro), traduzione di Marina Cavalli, Mondadori.
  • Apuleio, Platone e la sua dottrina, trad. di Emanuele Vimercati, Medioplatonici. Opere, Frammenti, Testimonianze, 2015.
  • Apuleio, Sulla magia e in sua difesa, traduzione di Giuseppe Metri, EDIPEM, 1973.

Altri progetti

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Opere

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